L’Arte sui muri di Diamante

di Enzo Monaco

 

ln tutta la riviera dei cedri non ci sono centri storici sul mare. I Saraceni con le loro incursioni piratesche hanno sempre spinto le popolazioni verso l’interno costringendole ad appollaiarsi sui cucuzzoli dell’Appennino retrostante.

Diamante fa eccezione. Il paese, sorto sulla fine del ‘600 quando i Saraceni non c’erano più, si è potuto sviluppare tranquillamente a ridosso della spiaggia. Col fascino antico del mare che s’intravede fra i vicoli. E oggi, ancora, con la suggestione tutta nuova e moderna di più di trecento murali dipinti sulle facciate delle vecchie case.

Uno spettacolo di eccezionale magia e al tempo stesso un’attrattiva senza confronti per i turisti, per i visitatori occasionali e anche per le comitive organizzate che vengono da tutte le parti per ammirare i dipinti, per passeggiare fra vicoli o anche solo per fare una fotoricordo sotto i murali.

Ma in che modo la «perla» di Serao e di Scarfoglio è diventata anche la «città dei murali» che fa l’occhiolino dai colorati depliant di turismo?

L’idea è stata di Nani Razetti, un pittore genovese di nascita, calabrese di adozione.  Fino a prima di morire, quando l’andavo a trovare, mi raccontava di come gli era venuta l’idea. “Ce l’avevo dentro da moltissimi anni – ripeteva – a farla esplodere è stata la lontananza dalla Calabria e il ricordo di Diamante che amo profondamente e che considero la mia patria di elezione. Il desiderio razionale era quello di salvare dal degrado e dal progressivo abbandono un vecchio borgo marinaro unico in tutto il litorale tirrenico da Tortora a Paola e, allo stesso tempo, qualificare l’offerta turistica con un autentico discorso di arte”. Tutto ha avuto inizio nel 1981. L’Amministrazione comunale prende sul serio “l’operazione murali” e il «progetto Razetti». Nel mese di giugno, ottantacinque pittori provenienti da tutte le parti d’Italia e da molti paesi europei, arrivano a Diamante e per cinque giorni si fermano a dipingere sui muri delle vecchie case

Un’operazione imponente con conferenze stampa, dibattiti, «incontri culturali» ma con scarsa adesione della popolazione quasi frastornata dal grande rumore e chiaramente impreparata di fronte ad un’iniziativa decisa e voluta tutta quanta «dall’alto».

«l timori ricorrenti — ricorda lo storico Ciro Cosenza — erano il colonialismo culturale e un’alterazione dell’identità dei posti e della tradizione locale. Quei giganteschi quadri accanto alle porte e alle finestre delle vecchie case sembravano qualcosa di estraneo. Qualcuno faceva notare che nessun pittore invitato era nativo di Diamante, che pochissimi erano i calabresi e i meridionali. Mentre tutti, o quasi tutti, trascuravano gli aspetti più squisitamente turistici e di richiamo dell’intera popolazione».

Sono bastati un paio d’anni e tutti questi pregiudizi sono scomparsi. Il proprietario del muro cominciava ad affezionarsi al «suo» murale; lo abbelliva con piante e fiori; discuteva con i vicini e con gli stessi visitatori perché lo giudicassero «il più bello».

Una rivalutazione dal basso, da parte della stessa gente che prima aveva subito e adesso piano piano cominciava ad essere partecipe, fino a rivendicare il diritto «di proprietà» del dipinto.

La consacrazione definitiva però doveva venire dal turismo. I depliant insistevano sullo slogan «Diamante, città dei murali»; le comitive di visitatori si facevano sempre più numerose in tutti i periodi dell’anno e molte dichiaravano di essere venute «di proposito» per vedere i dipinti; qualche albergo fece dipingere murali anche nelle stanze e nella sala ristorante e cominciò a presentarsi come «l’albergo dei murali nella città dei murali».

Così a distanza di qualche anno i murali hanno finito per imporsi e Diamante si consacrava sempre più come la “Città dei murales”.

Da uno sguardo anche superficiale si capisce che i dipinti della prima edizione mostrano una grande sensibilità per la cosiddetta «questione meridionale». Ci sono «cartoline» di paesaggi reali, fantastici o mitizzati nel ricordo della Magna Grecia ma in tutto sono cinque o sei. Per il resto i dipinti affrontano temi più vasti e generali come la pace, l’ambiente e l’ecologia. Oppure parlano della Calabria e del Sud. L’emigrazione uno dei temi preferiti.

Comincia, in corso Garibaldi, il veneto Marcon. Mette sulla destra la figura di un emigrante e sulla sinistra i ricordi della sua terra e della sua cultura d’origine. Fra le due realtà immagina un ponte gigantesco, volutamente allungato, che con la luce vivida dei suoi colori vorrebbe sostenere il desiderio e la speranza del ricongiungimento.

Il milanese Catani, su una parete di via Calvario, dipinge strade e vicoli vuoti, senza vita, carichi di tristezza e di desolazione come rovine di antiche civiltà; e fra di essi fa aggirare fantasmi umani che ricordano la morte e che vogliono simboleggiare «quelli che sono rimasti», le donne, i vecchi, i bambini che non possono lavorare e per questo non sono partiti assieme agli altri.

Fra i problemi la preferenza va alla mancata industrializzazione e alla posizione della donna.

Dorella di Verona dipinge, in via Dante, sofisticati impianti industriali che si vedono in lontananza e, in primissimo piano, due contadini, un uomo e una donna, stanchi per il lavoro della giornata e attirati dal miraggio lontano delle industrie sempre promesse. Qualche metro più avanti, sempre in via Dante, il napoletano Lo Sapio immagina una figura umana legata a una piattaforma di legno su uno sfondo di cielo azzurro e delicato pieno di glicini e di uccelli. Stretta dai miti e dalle superstizioni del passato che la tengono legata, sembra accettare la situazione e resta ferma e immobile trasportata da un ambiente falsamente buono e gentile. L’artista dice che è la donna calabrese ma aggiunge che «potrebbe essere la stessa Calabria, lo stesso Sud, prigioniero delle sue superstizioni e del suo cielo azzurro».

Tutto questo all’inizio. Poi per più di venti anni si va avanti con interventi sporadici e qualche tentativo di diversificare le presenze. Nel 1986 ci sono le poesie scritte sui muri. Dacia Maraini in via Galileo parla dei villeggianti come “cammelli pelosi” e nel 2006 Giovanni Grimaldi su un muro di Via Mazzini, racconta in dialetto, il miracolo dell’Immacolata che promette di proteggere i Diamantesi da fame peste e terremoto.

Nel 2000 al posto dei dipinti ci sono le vignette. Nasce “Piazza della satira” e arrivano i più famosi vignettisti italiani: Skiaffino, Contemori, Fasan e Massimo Bucchi.

Nel 2006 è la volta delle “Fiabe calabresi”.

Col passare degli anni quasi tutte le case del centro storico hanno il loro murale. Non ci sono più spazi e il pittore napoletano Gabriele Marino, diamantese di adozione, pensa di portare i dipinti fuori dal centro storico con l’iniziativa “Muralespanso”.

Gabriele Cataldo, Gianni D’Adda, Francesca Di Martino e lo stesso Gabriele Marino dipingono le loro opere sui muri delle case nuove fuori dal vecchio borgo marinaro.

Nel 2017 arriva la street art con decine di artisti provenienti da tutta Europa. Coordinati dall’artista Antonino Perrotta Diamantese doc che organizza un nuovo evento annuale. Lo chiama “Osa” un acronimo che significa “Operazione Street art”.

Sono passati quasi quarant’anni e Diamante è conosciuta da tutti come la “Città dei murales”. Con più di trecento dipinti è diventata la “città più dipinta d’Italia”.

Come aveva immaginato Razzetti il vecchio borgo marinaro ha una nuova vita e Diamante è diventata “un’autentica città di arte popolare, di un’arte fruibile dal popolo e per questo scritta o dipinta sui muri”. Per realizzare, come diceva lui, “un capitolo nuovo nella storia dell’arte italiana”.

 

 

 

Nella foto in evidenza il murale di Kadmon 1981, nella foto sopra il murale di Giavini che raffigura Evasio Pascale, il Sindaco della prima “Operazione Murales” e Nani Razetti, ideatore dell’iniziativa.

 

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